Agli inizi del Novecento l'Italia rappresentava
la seconda nazione al mondo per la quantità di canapa
tessile prodotta ed era preceduta, in questa graduatoria, dalla
sola Russia.
A quell'epoca, nel nostro Paese gli ettari destinati a tale coltura ammontavano
ad oltre 100.000 con un rendimento annuo che sfiorava gli 800.000 quintali.
Nel 1914 la provincia di Ferrara produceva 363.000 quintali di canapa, contro
i 157.000 della provincia di Caserta, i 145.000 della provincia di Bologna e
gli 89.000 del napoletano.
Negli anni a seguire, in tutto il territorio nazionale vi fu una progressiva
riduzione della superficie coltivata a canapa e, conseguentemente, della fibra
prodotta: si passò così da un massimo di 85.000 ettari coltivati,
con una produzione complessiva di un milione di quintali, ai 1.860 ettari del
1969 con soli 21.000 quintali di prodotto fino ad arrivare, nel 1970, ad un
minimo di 899 ettari con un rendimento di appena 10.000 quintali.
La crisi della canapa, già iniziata nel 1958 con la scomparsa totale della
produzione in Val Padana, completò la sua fase nel 1964 quando anche
la Campania, ultima regione che ancora tentava di contrastarne l'inesorabile
recessione,
fu costretta a desistere.
Ne conseguì che mentre questo evento non rappresentò difficoltà insormontabili
per i grossi agricoltori, che passarono rapidamente a colture diverse, o per
gli industriali del settore, che non tardarono ad adeguare i loro impianti alla
lavorazione di fibre sostitutive, costituì invece un autentico dramma
per i lavoratori del settore, specialmente per quelli più anziani, per
i piccoli artigiani e per le caratteristiche filatrici, che videro svanire
quella pur minima, faticosa ma importante fonte di reddito.
Di fatto, sin dal 1929, quando ormai si era manifestata al mondo nella sua
totalità quella
che fu definita "la grande crisi", vi furono gravi preoccupazioni in
campo economico, ma, mentre le nazioni più attente adottarono tempestivamente
misure protettive, in Italia solamente nel 1933 furono emanati i primi provvedimenti
e costituiti i Consorzi provinciali obbligatori per la difesa della canapicoltura,
che, dopo vicissitudini varie, si concentrarono, a partire dal 1953, nel Consorzio
Nazionale Produttori Canapa.
A nulla valsero imponenti manifestazioni di canapicoltori come quella del 12
dicembre 1946 a Caserta e convegni di studi ad alto livello, né sortirono
alcun effetto gli interventi dell'O.M.C.E., che, esortando a migliorare ed incentivare
la produzione della canapa e del lino, costituì una Confederazione Europea
del Lino e dalla Canapa. Analogamente a nulla servì l'accorato dibattito
sulla crisi della canapicoltura tenutosi il 12 agosto del 1951 a Frattamaggiore
(NA), che vide la partecipazione di tutti i parlamentari della Provincia, né giovò alla
causa il Convegno di Ferrara del 29-30 gennaio 1955.
Vi fu, senza dubbio, all'epoca una decisa volontà governativa di non
intervenire, malgrado le numerose sollecitazioni pervenute da più forze
politiche, e fu così che la coltivazione della canapa venne abbandonata
in favore di fibre sintetiche, resistenti, poco costose e facili da ottenere,
prevalentemente
in campo nautico, ma soprattutto in favore del cotone che nello stesso periodo
venne favorito da notevoli progressi nella meccanizzazione della raccolta e
nelle successive fasi di filatura.
Tra le cause concomitanti, che portarono alla crisi nel settore canapicolo,
un posto rilevante lo ebbe sicuramente il sistema di lavorazione della canapa
nell'azienda
agraria, che richiedeva un impiego complessivo di circa 1.200 ore di manodopera
per ettaro, fra i più alti di tutte le colture a pieno campo. Se da
un lato questo garantiva occupazione a circa 30 mila operai dall'altro offriva
condizioni
di lavoro particolarmente difficili, soprattutto nella fase della macerazione
in acqua degli steli raccolti in fasci.
Con l’abbandono del lavoro agricolo e delle campagne, avvenuto in modo
massiccio negli anni ’60, sono venute a mancare le basi materiali ed umane
perché la lavorazione potesse continuare e a questo si è aggiunto
l’arrivo di nuove fibre sintetiche che hanno largamente rimpiazzato la
canapa nei filati tradizionali. Per questo motivo tra gli anni '50-'60 vennero
indetti concorsi annuali per la progettazione di macchine, che permisero una
maggiore automazione delle varie fasi di coltivazione e trasformazione della
materia prima a fini tessili.
La macerostigliatura rappresenta l'ultimo tentativo, mai realizzato, di rilanciare
la coltivazione della canapa nel comprensorio bolognese. Secondo questo innovativo
processo di lavorazione, la laboriosa fase di macerazione non sarebbe più stata
realizzata in azienda, ma in un impianto industriale. Il progetto prevedeva una
stigliatura verde in azienda, cioè sugli steli ancora freschi ed una successiva
macerazione industriale della fibra così ottenuta. Nonostante questo
procedimento diminuisse l'impiego di manodopera a livello aziendale e permettesse
un maggior
controllo del delicato processo di macerazione, i progetti che lo descrivevano
non sono mai stati realizzati per il concomitante collasso del mercato della
canapa.
Da allora in Italia la canapa è rimasta il ricordo di una cultura contadina
sempre più lontana. L'intensificazione dei mezzi tecnici di produzione,
la realizzazione di macchine agricole sempre più sofisticate, il progressivo
cambiamento delle specie coltivate e soprattutto del loro miglioramento genetico
hanno fatto progressivamente svanire anche il ricordo dell'antica coltivazione
della canapa. Volere coltivare canapa, anche solo per passione è diventato
col tempo impossibile. Si è persa la tecnica di coltivazione, sono arrugginite
le macchine stigliatrici, sono state perfino smarrite le gloriose varietà italiane
un tempo considerate generatrici della miglior canapa del mondo. A questo si
deve oltretutto aggiungere una legislazione orba, che accomunava la canapa da
fibra a quella da droga, rendendone la coltivazione una pratica illegale. Dalla
seconda metà degli anni '90 le cose sembrano essere cambiate ed un rinnovato
interesse sembra aver riportato la canapa alla ribalta, se non della coltivazione
almeno della cronaca.
Sicuramente grande risonanza ha avuto la canapa impropriamente denominata "indiana",
ma la canapa tradizionale, da fibra, ha trovato nuovi estimatori e sostenitori
in seno al movimento ecologista, in quanto coltura naturale, a basso impatto
ambientale, che non necessità di input chimici per la coltivazione ed
in grado di rinettare il terreno dalle erbe infestanti e quindi apportare un
benefico effetto sul terreno stesso. Oltre a questo l'agricoltura europea malata
di sovrapproduzione ed eccessiva intensificazione ha cominciato a guardare
alle cosiddette colture no food, per diversificare ordinamenti colturali troppo
serrati
e poco sostenibili.
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